UN' AGENZIA ITALIANA PER LA
COOPERAZIONE CON I PAESI
IN VIA DI SVILUPPO
Roma,
La presente ricerca è il risultato dei lavori di un gruppo costituito presso l'IPALMO. Gli esperti che vi hanno partecipato, a titolo personale, non sono singolarmente repsonsabili delle affermazioni contenute nel documento.
SOMMARIO
- INTRODUZIONE pag. 1
- Cinque anni di "Decennio" " 2
- Motivi nuovi " 3
- Un ruolo per l'Italia " 4
- Il trattato di Lomé " 5
- Qual'èQual è il problema " 6
- Quello che fanno gli altri " 8
- Quello che si fa in Italia " 10
- Agenzia: "pro" e "contro" " 11
- L'ORGANIZZAZIONE DELL'AIUTO NEI PAESI DEL DAC " 15
- Premessa " 16
- La dimensione quantitativa della cooperazione allo sviluppo " 18
- L'aiuto pubblico allo sviluppo: composizione, condizioni d'onerosità, fonti di finanziamento " 28
- La struttura organizzativa e istituzionale dell'aiuto pubblico allo sviluppo : " 39
- Paesi donatori dotati di un Ministero per la Cooperazione " 42
- Germania occidentale " 42
- Regno Unito " 44
- Francia " 46
- Olanda " 47 2.
- Paesi donatori dotati di un'Agenzia per l'aiuto pubblico pag. 48
- U.S.A. " 49
- Norvegia " 50
- Svezia " 50
- Canada " 51
- Belgio " 52
- Australia " 52
- Paesi donatori con una sezione specializzata del Ministero degli Esteri " 52
- Paesi donatori che realizzano l'aiuto pubblico attraverso un sistema di agenzie specializzate " 55
- Paesi donatori con strutture amministrative tradizionali " 57
- Alcuni esempi di agenzia di cooperazione allo sviluppo : " 61
- l'AID (Stati Uniti) " 62
- la SIDA (Svezia) " 65
- la JICA (Giappone) " 68
- Considerazioni finali " 71
- COME SI ARTICOLA E SI AMMINISTRA IN ITALIA L'AIUTO ALLO SVILUPPO " 77
- Premessa " 78
- La nomenclatura dell'aiuto " 79
- Le strutture di gestione " 82
- La struttura dei flussi " 90
- Coordinamento e valutazione " 95 3.
- IPOTESI DI UN'AGENZIA ITALIANA PER LA COOPERAZIONE CON I PAESI IN VIA DI SVILUPPO pag. 100
- Alcune riflessioni sulla costituzione di una Agenzia italiana per lo sviluppo " 101
- Breve relazione sullo schema di disegno di legge: "Nuove disposizione sulla cooperazione con i Paesi in via di sviluppo" " 109
- Schema di disegno di legge: "Nuove disposizioni sulla cooperazione con i Paesi in via di sviluppo" " 121
- BIBLIOGRAFIA E DOCUMENTAZIONE " 153
INTRODUZIONE
CINQUE ANNI DI "DECENNIO"
La prima metà del secondo decennio per lo sviluppo è ormai trascorsa e ci si accinge a trarne le prime valutazioni (1).
Questo esame a mezza strada sarà particolarmente interessante perché riuscirà a dare la misura di quanto si sia modificato nel frattempo il concetto di aiuto allo sviluppo e quali siano i primi effetti di queste modificazioni che non sono certamente marginali.
Ma una simile verifica in sede internazionale sarà anche un'occasione in più per rivedere la qualità, la quantità e i modi dello sforzo che ciascun paese realizza in favore dei paesi in via di sviluppo.
I problemi sul tappeto sono numerosi.
Essi riguardano argomenti noti, come le materie prime, il commercio internazionale, la cooperazione industriale, la drammatica questione alimentare, il trasferimento delle risorse reali (ancora ben lontano dagli obbiettivi della Strategia che l'ONU approvò nel '70); e problemi invece di origine più recente, come la revisione delle priorità geografiche, la cooperazione triangolare, il legame fra diritti speciali di prelievo (DSP) e aiuto allo sviluppo, la questione delle "oil facilities" e della cosiddetta "third window".
Soprattutto però si può prevedere che qualcosa di nuovo ci sarà nello spirito con cui questi temi saranno trat 3. tati. Si è infatti consolidata la consapevolezza che qualcosa di importante sia cambiato nelle relazioni tra il mondo sviluppato e quello non; che un nuovo rapporto di forza si sia maturato e che nan si potrà non tenere conto del diverso significato acquisito in questi ultimissimi tempi dalle tradizionali relazioni di cooperazione e di "aiuto".
MOTIVI NUOVI
Sostanzialmente ciò che di nuovo è accaduto lo si po trebbe ridurre ad un unico fatto essenziale: la scoperta (meglio ancora: l'ammissione) da parte del mondo industrializzato che esso ha bisogno dei paesi in via di sviluppo almeno quanto il viceversa. Un bisogno economico e politico allo stesso tempo.
La crisi energetica ha catalizzato questa presa di coscienza in modo brutale ma estremamente efficace. Da un lato ha denunciato la complessità e l'irreversibilità di certi vincoli d'interdipendenza tra le nazioni. Dall'altro ha indicato in modo esemplare la strada pericolosamente ricattatoria verso cui potrebbero essere d'ora in poi avviate le rivendicazioni pressanti dei popoli sottosviluppati.
Mai come oggi risulta vera l'affermazione di Pearson quando asserisce, nel suo famoso rapporto del 1968, che l'aiuto internazionale non può più essere considerato solamente un dovere morale ma soprattutto un imperativo politico e sociale.
Oggi quest'imperativo si impone in tutta la sua categoricità e, proprio perché include un conflitto latente ma che ormai affiora, esso è divenuto inquietante ed urgente come mai prima d'ora era stato.
4."Bisogna creare delle condizioni di stabilità e di benessere e assicurare un livello di vita minimo compatibile con la dignità umana, grazie al progresso e allo sviluppo nell'ordine economico e sociale". Così si legge nel preambolo della Strategia per il Secondo Decennio, che peraltro si richiama ai solenni principi della Carta delle Nazioni Unite. Come tutte le dichiarazioni solenni anche questa non ha mancato di suscitare fiumi di scetticismo, senonché essa si pone oggi come condizione indispensabile di equilibrio e di sopravvivenza e a questo scopo ogni governo responsabile dell'avvenire del proprio paese è obbligato a provvedere con le misure più opportune ed efficaci.
UN RUOLO PER L'ITALIA
Di fronte alla complessità e alla vastità dei problemi che assillano il Terzo Mondo l'Italia non ha Mai brillato per particolare sensibilità. Chiusa dietro la solita giustificazione della gravosità persistente dei suoi squilibri interni, essa ha dimostrato di concepire l'aiuto internazionale o come un'occasione per uno stimolo alle proprie esportazioni o come un'elemosina al cui peso bisognava cercare di sottrarsi il più possibile.
L'indifferenza dell'opinione pubblica e la scarsa attenzione che generalmente i politici italiani dedicano alla politica estera ha portato il nostro paese all'incapacità di svolgere un qualsiasi ruolo costruttivo, anche se limitato, in questo settore per noi così delicato.
Non c'era dunque da stupirsi della desolata passività che ha caratterizzato l'Italia durante la crisi petrolifera.
In un momento determinante e che poteva essere fatale per la nostra economia, il nostro paese non aveva alcuna voce in 5. capitolo né per un colloquio con i paesi produttori né per una qualsiasi altra iniziativa significativa nella pur vasta area del mondo sottosviluppato.
Eppure il 25% delle nostre importazioni proviene da quei paesi e la parte di deficit della nostra bilancia commerciale dovuta ai traffici con il Terzo Mondo è aumentata negli ultimi tre anni del 272%!
Perfino i nostri capitali, di cui pure ci riteniamo sprovvisti, raggiungono in quote sempre più consistenti i paesi in via di sviluppo, e se volessimo tener conto di alcune recenti valutazioni della Banca d'Italia sulle imprese multinazionali a base italiana, gli investimenti italiani nei paesi in via di sviluppo raggiungerebbero addirittura il 40%
(1).
Ma per quanto si voglia parlare di mancanza di fantasia la verità è che una politica non si improvvisa e soprattutto non se ne improvvisano i mezzi per realizzarla.
Se vuole recuperare il terreno perduto, l'Italia non deve solo comprendere il valore politico della sua partecipazione ma deve anche agire di conseguenza rendendosi coerente ai suoi impegni internazionali e ottimizzando il suo contributo all'aiuto allo sviluppo.
IL TRATTATO DI LOMÉ
Il 28 febbraio di quest'anno si è firmato a Lomé, come tutti sanno, un trattato che rimarrà giustamente famoso. 46 Pae 6. si d'ell'Africa, dei Caraibi e del Pacifico (ACP) si sono formalmente associati ai 9 membri della Comunità Economica Europea.
La nuova convenzione, che sostituisce le precedenti firmate a Yaoundé, rappresenta quasi la metà dei paesi dell' ONU e ben 510 milioni di abitanti.
Gli accordi, frutto di una negoziazione durata 18 mesi, sono sostanziali e impegnativi. Essi comportano il libero accesso ai nostri mercati dei prodotti ACP, un fondo di stabilizzazione dei prezzi dei prodotti di base, un fondo di 3 miliardi di dollari per lo sviluppo, e numerose previsioni per favorire la cooperazione industriale e tecnologica. Questo per dire le cose essenziali.
L'Italia ha sempre appoggiato la firma di questo importante trattato, e ciò le comporterà certamente dei sacrifici. Ma è certo che gli accordi di Lomé segneranno una svolta importante nei rapporti con una buona parte del mondo in via di sviluppo.
Sarà pronto il nostro paese a cogliere il significato di questa svolta? Ad afferrarne non solo lo spirito ma anche la portata pratica? A dare un senso compiuto alle sue scelte attrezzandosi e provvedendo in modo opportuno affinché esse siano produttive di risultati e feconde di prospettive tanto politiche che economiche?
QUAL'ÈQUAL È IL PROBLEMA
Tutte le volte che si confronta il contributo italiano ai paesi in via di sviluppo con quello degli altri paesi cosiddetti donatori le conclusioni che se ne traggono sono puntualmente sconfortanti.
L'Italia è l'ultima in tutto o quasi. Penultima (se 7. gue l'Austria), se si considera il rapporto tra flusso netto di aiuto e PNL. Ultima se si considera l'apporto pubblico e il PNL. Penultima (segue l'Austria) se si considera la percentuale di gratuità finanziaria esistente nelle sue iniziative pubbliche. Ultima infine se si considera il PNL per abitante (1).
Ed è proprio questa graduatoria che permette una difesa, ovviamente non del tutto infondata, e cioè che in realtà l'Italia è un paese ricco e industrializzato per modo di dire, dal quale non si possono pretendere le stesse prestazioni e gli stessi sforzi effettuabili invece dagli altri.
A parte il fatto che i parametri principali sono appunto in proporzione con il PNL e che una simile difesa denuncia ancora una volta un modo assolutamente inadeguato di concepire l'aiuto internazionale (come una perdita, secca incapace di tornare utile sotto nessun aspetto), bisogna pur sempre convenire che le risorse che l'Italia potrà rendere disponibili a questo scopo saranno comunque limitate e ciò anche se una migliore volontà politica ne decidesse finalmente un aumento cospicuo.
In tema di aiuti allo sviluppo il problema dell'Italia pertanto è sì, certamente, un incremento quantitativo ma soprattutto un miglioramento qualitativo. Un paese povero di risorse deve utilizzare quelle che ha. Più sono pochi questi mezzi meglio deve organizzarsi per non sperperarli e frammentarli e per spenderli invece in modo razionale ed efficace.
QUELLO CHE FANNO GLI ALTRI
Nello sviluppare il presente studio si è voluto dunque considerare, come obbiettivo principale, la ricerca di dati sui quali costruire alcuni suggerimenti per migliorare qualitativamente i risultati del nostro contributo allo sviluppo, senza per questo dover prevedere impossibili incrementi quantitativi.
In ordine a queste finalità, tutta la prima parte dello studio è stata dedicata ad un'attenta analisi di quanto viene fatto da parte degli altri paesi membri (1) del Comitato per l'Aiuto allo Sviluppo dell'OCSE.
A parte le indicazioni di carattere comparativo assai poco confortanti per noi, ciò che maggiormente colpisce l'attenzione è il modo con cui questi paesi gestiscono o organizzano le risorse destinate all'aiuto internazionale. Una stretta relazione esiste tra qualità dei risultati e tipo di struttura prescelta per amministrare la cooperazione con i paesi in via di sviluppo, e ciò indipendentemente dal valore assoluto delle risorse impegnate.
Su 16 paesi considerati, 12 si sono dotati di un'Ammistrazione autonoma e specializzata (anche se provvista degli opportuni organi di coordinamento con il settore pubblico e privato).
In alcuni casi si tratta di veri e propri ministeri (Germania e Inghilterra), più frequentemente di "agenzie".
La competenza di tali Amministrazioni è variabile an 9. che se emerge chiara la tendenza a concentrare il più possibile onde facilitare il coordinamento e la complementarietà.
Dei quattro paesi che non hanno ancora adottato questo tipo di soluzione, tre rappresentano il contributo qualitativamente di gran lunga il peggiore; essi sono: l'Austria, l'Italia e la Svizzera. Il quarto, la Francia, gode di un'Amministrazione mista piuttosto complessa e che risente fortemente dei particolari legami che questo Paese conserva con la parte francofona del Terzo Mondo.
Ma quello che infine può risultare più interessante di ogni altra cosa è che le soluzioni del problema del "management" dell'aiuto si sono orientate verso quella che appare oggi la formula più comune — cioè l'Amministrazione autonoma e specializzata — dopo non poche riflessioni e ripensamenti (alcuni, come il Giappone e l'Australia, vi sono pervenuti solo recentemente).
Sembra ormai parere comune che una struttura apposita, dotata di propria capacità operativa e di personale particolarmente competente, sia in grado, meglio di ogni altra, di assicurare alcuni aspetti essenziali che in breve si potrebbero così riassumere: tempestività: riduzione al minimo tra il momento decisionale e quello operativo; agilità e adattabilità; coordinamento: massima utilizzazione della componente privata in quanto complementare a quella pubblica; concentrazione dell'aiuto bilaterale e quello multilaterale; competenza: staff specializzato e stabile capace di garantire continuità, qualità nella scelta tecnica e oculatezza nella spesa; razionalizzazione: ripartizione programmata delle risorse nel medio periodo e valutazione successiva dei risultati degli interventi: eliminazione massima della casualità e dell'empirismo.
QUELLO CHE SI FA IN ITALIA
La seconda parte dello studio è naturalmente dedicata ad un dettagliato esame dell'organizzazione dell'aiuto in Italia
Le conclusioni sono estremamente istruttive: l'Italia non ha una politica per la cooperazione con i p.v.s.,e se per caso l'avesse sotto forma almeno di direttive generali ma coerenti, mancherebbero del tutto gli strumenti adatti per realizzarla.
Insomma, la cooperazione italiana prende annualmente forma solo grazie ad un terribile sforzo statistico dei competenti uffici del Ministero del Bilancio, i quali mettono insieme dati provenienti dai punti più diversi
La componente privata costituisce di gran lunga la parte prevalente del nostro "aiuto", ma essa risulta completamente disancorata da qualsiasi indicazione proveniente dal settore pubblico, il quale a sua volta si disarticola nelle tre componenti principali dei doni, della cooperazione tecnica e dell'aiuto multilaterale, senza nessun punto di riferimento comune se non l'occasionalità di alcuni comitati interministeriali.
L'Italia impiega così malamente, circa 400 miliardi di lire all'anno di cui almeno 100 direttamente attraverso la Pubblica Amministrazione (il cosiddetto aiuto pubblico).
Unico elemento parzialmente positivo: il settore della Cooperazione Tecnica (appena il 3% del flusso globale). Da quando nel 1972 è entrata in vigore la nota legge 1222 del 1971 (l'unico complesso organico di norme che cerchi di regolare in modo razionale almeno una parte della cooperazione con i p.v.s.), si è potuto assistere ad un miglioramento in certi casi anche sensibile della nostra assistenza tecnica. Ciò soprattutto si deve all'effetto di un primo sforzo di concentrazione e, nei limiti 11. delle strutture, di razionalizzazione. Ma anche qui non mancano i problemi: a parte la mancanza assoluta di coordinamento con il resto dell'aiuto, gli interventi sono lenti e macchinosi, la programmazione è ancora frutto di indicazioni empiriche piuttosto che di scelte rigorose, mentre manca del tutto una qualsiasi valutazione degli interventi su base almeno approssimativamente tecnica.
Nonostante la legge 1222 sia, di fatto, l'unica gloria all'occhiello dell'Italia in tema di aiuto internazionale, lo stesso Parlamento non ha potuto fare a meno di criticarne,in termini anche abbastanza duri, l'inadeguatezza e di auspicarne il rinnovamento radicale. Ciò è avvenuto appena nello scorso maggio; con l'occasione di una richiesta di aumento dei fondi della legge per il corrente esercizio. Aumento che per fortuna è stato concesso dalle competenti Commissioni Esteri all'unanimità ma, come s'è detto, non senza un animato dibattito.
AGENZIA: "PRO" E "CONTRO"
Il fatto che persino il Parlamento — finora, bisogna dirlo, relativamente poco sensibile a questi temi — si fosse improvvisamente preso molto a cuore i problemi dell'aiuto allo sviluppo con l'occasione delle scadenze finanziarie della legge 1222 (1), ha riaperto una spinosa questione circa il tipo di rin12.novamento legislativo e strutturale che si sarebbe dovuto apportare nel settore.
Già nel 1970, quando la legge 1222 era in gestazione, parecchi sostennero che era quello il momento per tentare un riordinamento generale della materia e creare un organismo autonomo e snello che, secondo una terminologia internazionale ormai in uso, veniva denominato "agenzia".
L'idea non piacque e addirittura irritò soprattutto alcuni rappresentanti della Pubblica Amministrazione. Essa non arrivò nemmeno a prendere corpo concreto di proposta. Oggi il problema si ripropone e, sia le particolari circostanze che caratterizzano le relazioni con i p.v.s., sia la prova in fondo deludente delle strutture suggerite dalla legge 1222, sembrano dare più forza ai sostenitori dell'Agenzia.
Ma non mancano nemmeno coloro che — forse anche per istinto "di conservazione", certamente per maturata convinzione — sono invece nettamente contrari a qualunque cosa sfugga al pieno controllo della Pubblica Amministrazione.
E'È di alcuni mesi fà la riunione di un gruppo di lavoro interministeriale costituitosi proprio per studiare il problema della riorganizzazione del quadro giuridico dell'aiuto finanziario. Per quanto non pubblicamente note sembra che le conclusioni non vadano più in là dall'auspicare: che il CIPE (che finora si è occupato della materia una sola volta: nel 1972!) determini le direttive politiche ed operative generali; che un Comitato ristretto di Ministri dello stesso CIPE coordini anno per anno le direttive generali all'evolversi della situazione; che un Comitato interministeriale composto di Direttori Generali curi l'applicazione degli indirizzi programmatici e di coordinamento.
13.Le indiscrezioni non dicono in che modo tutti questi comitati riuscirebbero a concretare in interventi coordinati e tecnicamente validi le loro attività.
Ma volendo essere brevi si potrebbero riassumere così le argomentazioni dei sostenitori e degli oppositori dell' "Agenzia".
I primi affermano che si tratta del modo più ovvio e concreto per disporre — come la realtà sembrerebbe richiedere — di uno strumento agile, tecnicamente competente perché dotato di uno staff specializzato, saldamente ancorabile ad un rigoroso controllo politico, duttile ed efficiente in grado di sviluppare una seria attività di coordinamento.
I secondi invece oppongono di fatto, anche se con accenti variabili, una sola consistente argomentazione, la cui efficacia non va peraltro sottovalutata. L'Italia sembra essere, soprattutto in questo momento, particolarmente afflitta e scontenta della miriade di enti pubblici autonomi e semi-autonomi che hanno proliferato. Crearne un altro, creare un nuovo "carrozzone" inutile, sarebbe insomma una perseveranza diabolica. L'esperienza si ricondurrebbe fatalmente alla solita occasione di "distribuzione politica di posti", senza alcun miglioramento sostanziale nella gestione.
A parte il fatto che le critiche al "parastato" nulla ci dicono di buono purtroppo sull'efficienza invece dello Stato, non si può fare a meno di valutare nel suo giusto peso l'argomentazione, anche se unica, degli oppositori dell'Agenzia.
E'È proprio a questo scopo che il presente studio invece di limitarsi all'esposizione di dati e di teorie, come in genere in uno studio avviene, ha voluto tentare di costruire concretamente un'ipotesi di Agenzia per la cooperazione con i pae 14. si in via di sviluppo. E per rendere ancora più verosimile l'esercizio, l'ipotesi è stata ricavata da un certo numero di modifiche alla legge 1222, il cui schema si allega e si commenta nella parte III del documento.
Lo sforzo si giustifica chiaramente nel senso di dare, da un lato, un contributo non astratto al grave problema dell'amministrazione dell'aiuto in Italia così come esso appare dai dati stessi raccolti nello studio e dall'altro di verificare se fosse possibile immaginare anche in Italia una Agenzia garantita dai rischi di un'involuzione.
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