DIBATTITO SPINELLI-BASSETTI EUROPA E REGIONI: ALLEANZA PER UNA RIVOLUZIONE

L'Istituto per gli Affari Internazionali ha organizzato il 18 marzo scorso a Roma un dibattito fra Altiero Spinelli, membro della Commissione delle Comunità Europee e Piero Bassetti, Presidente della Regione Lombardia sul problema dei rapporti fra Europa e Regioni. Pubblichiamo la trascrizione stenografica del dibattito.

Non credo che, fra Bassetti e me, ci saranno polemiche, ma solo una prospettiva differente. Perché in un caso il problema del rapporto fra lo sviluppo dell'unità europea e lo sviluppo delle Regioni è visto da Bruxelles, nell'altro da Milano.

Si tratta di temi dibattuti molto vivacemente durante la Resistenza, pei primi ami del dopoguerra e, in fondo, ancora in corso di realizzazione.

Tanto per la regionalizzazione degli Stati, che per l'unità europea è difficile dire che si sia al di là dei primi passi.

I due processi sono stati avviati, ma sono restati sostanzialmente autonomi. Essi erano uniti solo per chi aveva grandi preoccupazioni dottrinali e formulava raffinate teorie di federalismo integrale.

L'Europa incontra le Regioni

Tuttavia, col procedere delle cose, le due esperienze si sono incontrate. E' interessante vedere come la Comunità — cioè queste primo inizio di unità europea — ha scoperto le Regioni. Non le ha scoperte in base ad una problematica teorica, ma di fronte a problemi concreti, in particolare al problema di dover costruire, al di là della semplice unione doganale, una vera e propria unione economica e monetaria.

E' apparso allora che se ci si fosse limitati a togliere alcuni poteri di direzione della vita economica agli Stati e, al livello comunitario, a fare semplicemente una politica di puro e semplice liberismo, si sarebbe creata una situazione di crescente tensione fra le regioni più ricche e le regioni più povere. Si sarebbe ripetuto, al livello europeo, quanto si è verificato al livello degli Stati.

E' per questo che il 9 febbraio scorso, contestualmente all'impegno di avviare un processo decennale di costruzione della unione economica e monetaria, i Sei si sono trovati d'accordo, nel ritenere che questo processo deve comprendere le necessarie azioni sul piano strutturale e regionale.

C'è quindi un impegno della Comunità a fare politica regionale, ad avere una responsabilità nell'eliminazione degli squilibri, nel correggere tanto l'eccessiva concentrazione di investimenti che la loro carenza.

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Una battaglia da fare

Tuttavia, è necessario non confondere quello che sta sulla carta con la realtà. Il fatto che si è preso questo impegno significa semplicemente che si è stabilita l'arena di una battaglia politica che si deve fare. Rispetto ai problemi della unificazione europea c'è, molto spesso, la tendenza a dire: « se quella politica ci piace, noi siamo per l'Europa. Se non ci piace, noi siamo contro l'unificazione europea ».

Questo linguaggio poteva significare qualcosa nel 1950, ma oggi non significa più niente. E' come se si dicesse: «se la politica del governo italiano mi piace, io faccio l'italiano, se non mi piace, non lo faccio ».

Una volta entrati nella Comunità europea, non si può decidere di uscire o di restarci: ci si può stare attivamente, fare politica e costruire l'Europa, o ci si può stare passivamente, subendo la politica altrui.

Questo discorso vale, in particolare, per la politica europea regionale: anche nella Commissione abbiamo la sensazione che attuare le dichiarazioni del 9 febbraio non sarà cosa facile. Sarà necessario un forte impegno anche e soprattutto da parte delle Regioni.

All'interno della Comunità, troviamo abbastanza facilmente chi dice che dovremmo definire azioni comuni, linee di sviluppo, piani di sviluppo regionale, ma che il loro finanziamento (e il problema reale è il finanziamento) debba restare nazionale.

Se tale atteggiamento prevarrà, si faranno studi, verranno dichiarazioni di belle intenzioni, ma non ci sarà nessuna possibilità di azione effettiva.

Vi è tuttavia oggi, nella Comunità, un tentativo per istituire un Fondo per lo sviluppo regionale, tentativo, in verità, ancora contestato, La creazione o meno di questo Fondo testimonierà se la Comunità sarà o non sarà disposta a fare una politica regionale.

Il sottosviluppo in Europa

In Italia, molto spesso, il quadro europeo del problema regionale appare in questi termini: dobbiamo spostare sulle spalle della Comunità un po' del peso che grava sulle spalle nostre per il Mezzogiorno.

Ma gli Italiani si devono rendere conto che il problema regionale non è solo il problema del Mezzogiorno. Sull'Italia il peso delle regioni sottosviluppate grava più che sugli altri Stati, ma non ci si può dimenticare che ci sono grandi aree sottosviluppate in Francia, che l'Irlanda è, in un certo senso, tutta una regione sottosviluppata, una specie di Mezzogiorno del nord. Ugualmente c'è un problema di sottosviluppo nella Scozia del nord e in altre zone dell'Europa.

In sostanza, esiste in Europa un insieme di regioni sottosviluppate. Inoltre, il problema di uno sviluppo equilibrato non riguarda soltanto le regioni più arretrate. Occorre anche evitare gli eccessi di concentrazione che, nelle regioni più sviluppate, stanno raggiungendo un punto rovinoso.

Un terzo delle risorse comunitarie

Ho accennato prima alla questione del Fondo per le regioni. Il problema del Fondo è se la Comunità disporrà o meno di mezzi per compiere la battaglia regionale. In proposito, occorre tenere presente che nel 1975 la Comunità non riceverà più i contributi degli Stati, ma avrà sue risorse proprie provenienti dalle dogane ,dai prelievi agri coli e da una certa percentuale della tassa sul valore aggiunto.

È evidente che se manchiamo di visione e di azione politica, interessi più forti decideranno sull'uso dici fondi comunitari. Ne è prova l'attuale situazione: il 95% delle risorse comunitarie sono spese per la politica agricola. Chi arrivasse a Bruxelles senza conoscere molto i nostri paesi, potrebbe pensare che la Comunità è un insieme di regioni e di paesi agricoli che hanno come primo problema l'agricoltura e di quella prevalentemente si occupano. Ma la realtà è ben diversa. Se si pensa a un centro europeo capace di svolgere una politica e un'azione econonica comune ec ente, tut. to lascia pensare che un terzo delle risorse comunitarie dovrebbe essere speso per le necessarie trasformazioni agricole — perché dobbiamo fare delle profonde trasformazioni agricole — un terzo per lo sviluppo industriale e tecnologico e un terzo per la politica regionale e per la politica sociale. Un terzo delle risorse dovrebbe cioè essere impiegato per uno sviluppo armonioso fra le varie parti della società europea.

Nelle battaglie politiche par tecipano quelli che sono più profondamente interessati ad esse, perciò l'attuazione di una politi ca regionale europea dipenderà, in gran parte, dal modo e dalla misura in cui le Regioni si sentiranno regioni dell'Europa e non solo regioni dei loro vecchi Stati nazionali.

Anch'io credo che tra Spinelli e me ci siano più convergenze che divergenze. Tuttavia, vorrei fare alcune precisazioni su tre punti. Primo: che cosa è una politica regionale della Comunità; secondo; perché abbiamo incontrato degli ostacoli, fino ad ora, e come possiamo superarli; terzo: quali possono essere le linee operative, pratiche e, entro certi limiti, immediate.

La prima cosa è mettersi d'accordo sul significato di « politica delle regioni ». Io ho qui un brano di Malfatti, tratto da un discorso del 15 settembre 1970 nel quale si afferma che « una politica dell'espansione industriale e agricola non potrebbe essere concepita globalmente senza essere accompagnata da una chiara visione delle esigenze di armonioso sviluppo delle regioni della Comunità. Non intendo soltanto riferirmi al problema delle regioni meno sviluppate della Comunità, alle cui popolazioni deve essere assicurata la possibilità di conseguire un tenore di vita di livello comparabile a quello delle regioni più progredite, ma voglio sottolineare altresì l'esigenza di evitare nelle regioni più industralizzate il deterioramento delle condizioni di vila e di lavoro, causato dalla congestione e dall'eccessivo ritmo di sviluppo.

In questo brano c'è il Mezzogiorno e c'è la Lombardia, per fare riferimenti concreti, e, si potrebbe dire, c'è la politica del MEC per le regioni.

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Politica delle Regioni e politica per le Regioni

A mio avviso, questa è una politica per le regioni, una cosa diversa da quella che dovrebbe essere una politica delle regioni per la Comunità Europea.

Mi spiego: si può concepire una problematica regionale risolta da un centralismo europeo, ma in tal modo — e Spinelli lo ha detto molto bene — si dà inizio sicuramente al processo che il centralismo ha già avviato nei diversi Stati. C'è una logica inesorabile in democrazia, fra squilibri e tipo di costruzione istituzionale che si realizza.

Centralismo e squilibri

Il Governo nazionale ha creato gli squilibri, in Italia, non si è limitato a lasciarli irrisolti: sono stati il centralismo e l'unità a far nascere il problema del Meridione. L'analisi di Salvemini, di Gramsci e dello stesso Sturzo — per non parlare dell'impostazione di Cattaneo — lo avevano già previsto con chiarezza o dimostrato.

Non v'è dubbio che, se ci sarà una politica europea delle Regioni secondo una concezione comunitaria di tipo centralista, anche se il centralismo sarà a Bruxelles, l'effetto sarà uno solo: l'aumento degli squilibri.

Può darsi che una classe dirigente più illuminata possa concedere più di quanto, per esempio, lo Stato nazionale italiano non abbia concesso al Meridione. Ma non credo che andremmo molto lontano. Sono assolutamente convinto che, se noi vogliamo fare una politica delle Regioni nel MEC, dobbiamo allargare un momento l'orizzonte del nostro dibattito.

Dimensione regionale e dimensione continentale

Le società moderne vanno verso la dimensione regionale e la dimensione continentale. La dimensione regionale è quella in cui aspetti etnici, economici e sociali si esprimono con concretezza e immediatezza. L'esitazione con cui tale dimensione è recepita da parte delle istituzioni è alla base dei fatti di protesta etnica presenti un po' dovunque in Europa che noi, qualche volta, liquidiamo come fatti di campanilismo.

C'è poi la componente di mercato, la quale non è più nazionale.

Venti anni fa l'Europa usciva da una seconda grande guerra civile e non a caso le Potenze Alleate imponevano le Regioni ai tedeschi, con un preciso obiettivo politico di potere: snervare il potere prussiano (cioè un tipo di centralismo che, in Germania, era militarista) orare la democrazia tedesca ai contenuti popolari che non necessariamente — e questa è stata la grande intuizione — erano militaristi.

Allora si parlava di Europa anche perché gli imprenditori avevano capito che la dimensione nazionale non era la dimensione della ricostruzione economica, di fronte alla Russia e agli Stati Uniti. E le istituzioni europee sono state fatte.

In seguito c'è stato, indubbiamente, un rigurgito di arcaicità istituzionale.

Avevamo ricostruito le strutture preesistenti e la loro ricostruzione aveva determinato la nascita di sovrastrutture che sono entrate in azione e, conformemente alla loro logica, hanno compiuto il tentativo di rifare l'Europa delle nazioni.

Ma si tratta di un tentativo destinato con assoluta sicurezza a fallire, perché le nazioni sono nate contro l'Europa. L'Europa si farà soltanto nel momento in cui sì capirà che per farla bisogna andare a trovare le dimensioni della lotta politica. Perché l'Europa sarà un fatto rivoluzionario: tutti i fatti che spostano il potere da dove è per portarlo altrove sono rivoluzioni.

Prendere il potere

Per strappare il potere agli Stati bisogna fare una rivoluzione. Può non essere cruenta ma comunque è una rivoluzione.

Quali sono le forze capaci di fare una rivoluzione per l'Europa? Credo che non a caso sia stata l'agricoltura la prima a muoversi. Come mai l'Europa che è una grande potenza industriale e commerciale, impiega infatti buona parte della sua sovrastruttura unitaria a favore dell'agricoltura?

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Ciò non deve sorprendere per ché se c'è una struttura che è europea nel mercato e regionale nelle condizioni di produzione, questa è l'agricoltura. A Bruxelles, schematicamente, si può parlare di agricoltura italiana, ma in realtà si sta parlando in maniera nettamente distinta di agricoltura padana o di agricoltura mediterranea.

Quando alla Comunità si fatica a raggiungere gli accordi, la linea di frattura non è mai propriamente nazionale. Essa si in crocia sempre con problemi di natura regionale.

In conclusione, se vogliamo fare l'Europa, dobbiamo stabilire un nuovo tipo di alleanza politica: l'alleanza fra il livello europeo e il livello subnazionale che è, appunto, il livello regionale.

I problemi che si presentano sono in primo luogo problemi di potere. Chi vuole il potere sono le Regioni e l'Europa. Chi non vuole rinunciare al potere sono gli Stati nazionali.

La politica delle regioni, in Europa, deve concretizzarsi in un sistema di alleanze per costruire effettivamente l'Europa. La politica per le regioni nel MEC non deve essere tanto una Ja politica di sussidi, quante una politica di attenzione, volta a favorire la presa di potere da parte dei livelli istituzionali subnazionali che, congenitamente, porteranno avanti una politica di tipo europeo.

Bassetti ha ragioquando pensa che la lotta per lo sviluppo delle regioni e per lo sviluppo dell'unità europea sono due azioni che si integrano e che hanno un avversario comune, che è il vecchio Stato nazionale.

Impedire discrepanze crescenti

In questo incontro di forze ciascuna parte dene per rendersi conto di che cosa si può aspettare dall'altra. E' certo che non tocca alla Comunità accollarsi la politica delle regioni perché ciò porterebbe ad un centralismo più alto in luogo di un centralismo più basso. La politica delle regioni la devono fare le regioni, e io avevo concluso il mio intervento dicendo che se non ci sarà una attenta e forte presenza delle regioni nello sviluppare la politica comunitaria per le regioni, questa non si svilupperà mai.

La Comunità come organo centrale non può che gestire quella parte della politica comune che si può attuare a favore delle regioni. Nel pensare a questa politica non dobbiamo attribuirle il compito di definire i contenuti di ogni singola politica regionale, dato che è la prima caratteristica delle regioni il sapersi dare una propria. pienezza di politica, di aspirazioni e di caratterizzazioni. Il compito dell'organo centrale di una Comunità più larga è nell'impedire discrepanze crescenti negli sviluppi regionali.

Bisogna tener conto che non c'è un'armonia prestabilita. Tante buone politiche regionali non mi garantiscono automaticamente la po. ero convergenza verso un obiettivo di sviluppo equilibrato.

La spada e l'oro

Il compito di un potere centrale è quello di mantenere una certa armonia globale, svolgendo la politica per le regioni sulla base delle loro esigenze comuni.

Se non esistesse un contenuto per questa politica, ciò vorrebbe dire che non ci sarebbe materia per fare una unità al di sopra delle unità regionali. Ma c'è, perché, come Bassetti stesso ci ricordava, ci sono una quantità di attività che fatalmente spezzano il quadro regionale e vanno anche al di là di quello nazionale.

A questo punto ci dobbiamo chiedere che cosa voglia dire azione europea: bisogna vedere effettivamente quali sono gli strumenti con cui agire perché altrimenti le idee restano ineffettive.

Volendo usare un motto francese, direi che qualsiasi potere centrale ha essenzialmente due modi per farsi sentire dagli organi inferiori « ou le flic ou le fric », o tutti e due; o la polizia o i soldi o tutti e due; per parlare più chiaro, o la forza della legge o la possibilità di concedere finanziamenti.

Un avversario comune

Vi è un secondo interrogativo da porsi; esistono di fatto centri di potere interessati ad agire nel senso indicato? E' chiaro che le regioni, proprio perché hanno un avversario comune, dovrebbero realizzare accordi fra di loro e avere una visione programmatica dell'azione da svolgere presso gli organi del la Comunità.

Per tornare all'esempio di Bassetti, è vero che nella agricoltura el realtà regionali hanno una importanza essenziale però non sono state le regioni a farsi sentire nel determinare la politica agricola, quanto piuttosto massicci interessi ben organizzati e centralizzati, legati ai grandi enti e appoggiati ai Ministeri della Agricoltura. Probabilmente, se ci fosse stata una maggiore presenza delle regioni, la politica agricola avrebbe avuto un carattere diverso.

La posizione operativa delle classi dirigenti regionali e delle classi dirigenti comunitarie, deve essere ispirata alla massima di un uomo politico romano molto realista — e cioè che il potere, « chi ce lo ha a se lo tiene ».

Il discorso sul potere porta al discorso istituzionale. Non dobbiamo dimenticare che tutte le regioni hanno una obiettiva convergenza nella rivendicazione di potere, e che gli organi comunitari, in particolare la Commissione, si trovano di fronte allo stesso problema.

Il potere e le idee

Il potere però lo si prende se lo si chiede per delle idee: quindi la prima cosa che le regioni e, a mio avviso, la Commissione devono fare è difendere e diffondere la dignità del raccordo tra idea dell'Europa è idea della regionalizzazione delle istituzioni in Europa.

Ho quindi l'impressione che noi dobbiamo, insieme, batterci per prima cosa sul fronte della cultura; sul fronte delle idee.

Sono convinto che la politica si faccia in tre modi: « flic » e « fric » sono importanti ma, ce n'è un terzo che è altrettanto importante, e cioè la libertà. Molte cose sono state unite attorno a una dimensione di libertà.

Oggi, nella Comunità, il problema non è più soltanto quello dello stato, perché il potere è - 291 - in realtà nelle tecno-strutture; lo stato è una di esse, che si assume alcuni compiti. E' difficile sostenere che ci sia sempre un primato della tecno-struttura statuale sulla tecnostruttura produttiva.

Il vero problema è di renderci conto di come un'azione liberatrice di spinte autonome (raccolte attorno a nuovi raggruppamenti istituzionali) possa venire mediata dalla cultura politica. Sotto questo aspetto, un terreno di lavoro importante tra regioni e Commissione è il Parlamento europeo ed è quindi importantissima la battaglia per la sua elezione diretta; si tratta di uno scontro politico e di idee, le cui conseguenze saranno importantissime per i popoli.

La cultura nazionale svaluta un discorso di questo genere, tacciandolo di federalismo ottocentesco.

Ma questi sono fenomeni che, ad un certo momento, spariranno da soli, perché prodotti dalla sottocultura. Però, la sottocultura diventa sottocultura nella misura in cui esiste una cultura e se noi portiamo avanti, come cultura dell'Europa delle regioni soltanto Cattaneo o Mazzini, indubbiamente ciò non basta.

ImmagineFoto di Altiero Spinelli

La prima cosa che bisogna chiedersi quando si vuole pensare a una possibilità di azione conunae deve essere: dove, oggi, in pratica, si può fare un primo aggancio serio e vero.

Il senso di una comumità di interessi fra chi è impegnato nella costruzione europea e chi è impegnato nella costruzione dello sviluppo regionale c'è. Il problema è dove si possa cominciare.

Tecnostrutture conservatrici

Fare una politica significa cercare di costruire un qualche centro capace di pensare e capace di esercitare una pressione sufficente. Bisogna rivolgersi alle tecnostrutture, Quando la Comunità vuole impostare uno dei problemi, si rivolge a tutto il complesso europeo.

Le prime risposte, chiare e imponenti sono quelle delle tecnostrutture statuali, le quali sono sempre vigorosamente presenti, vogliono fare loro; ma tutti vediamo che si tratta di una risposta limitata, proveniente da tecnostrutture parziali. D'altro canto prendere contatto con le altre tecnostrutture europee è eccezionalmente difficile. Ma nella misura in cui non si riesce a coinvolgerle, il più bel progetto diventa alla fine un fatto ancora una volta interstatale, con i pochi risultati che può dare. Si riduce al minimo la capacità innovatrice e trasformatrice e si sviluppa al massimo la capacità conservatrice.

Oggi in tema di politica regionale europea si è a un punto cruciale; tutte le feenosirutture, e buona parte delle tecnostrutture statuali propongono progetti comuni ma ciascuna vuole poi gestire e attuare in proprio questi progetti comuni.

Lo Stato che più sinceramente cerca di opporsi a questa prassi, l'Italia, è per molti versi il più debole; gli altri hanno la forza oltre che la tendenza a mantenere la situazione come è.

C'è uno strumento che può essere il grande regolatore, cioè la disponibilità di mezzi comuni e la presenza di qualche organo comune. Stiamo attenti, però perché se riusciamo ad avere un forte Fondo comune per - 292 - la politica regionale, ma esso viene posto sotto il controllo di un comitato in cui i rappresentanti delle regioni saranno i rappresentanti degli Stati (in base al fatto che oggi non ci potrebbe essere un ponte diretto) quello che auspichiamo non sarà realizzato che in minima parte.

ImmagineFoto di Piero Bassetti

Dicevo prima che la battaglia per l'Europa è una battaglia rivoluzionaria. Non è che pensassi a berretti frigi. Le rivoluzioni non si fanno più in modo romantico, ma in termini di trasformazioni permanenti attraverso lotte tenaci nell'arco di 20, 30, 40 anni.

Vecchi e nuovi giacobini

Il primo punto della strategia di un regionalismo politico è battere il nazionalismo che vive parassitariamente sulla rendita del giacobinismo.

Quella parte della sinistra che in tutti i paesi difende lo Stato-nazione, è per conformismo alla tradizione giacobina; la battaglia dello Stato nazionale è stata una battaglia giacobina e come tale piace agli intellettuali, soprattutto, agli intellettuali di sinistra.

Oggi parlare male dello Stato nazionale sembra essere dei girondini. Se noi non creiamo la persuasione che oggi, essere per la difesa della dimensione nazionale vuol dire essere girondini e non giacobini, che la rivoluzione sta sopra e sotto lo Stato nazionale non possiamo svolgere una battaglia culturale.

Coloro che si adagiano in tali situazioni di schietto conformismo non si rendono conto — e questo è il vero pericolo della sinistra europea — che il discorso dello Stato-nazione sta diventando appannaggio della destra europea.

In ogni caso, bisogna agire senza farsi fuorviare dalla concezione per cui la rivoluzione, o la si fa tutta, o non la si fa.

Inventare una cultura politica

Dobbiamo invece credere che, se si fa una tenaglia e tra le ganasce della tenaglia c'è tensione, può scoccare l'arco.

Come e quando? Questo non è il problema del politico, ma della storia. Il politico deve creare la tenaglia e la differenza di potenziale cultural-politica, e poi aspettare che la storia faccia scoccare, preceduto da una scintilla, l'arco, e definisca il per corso dell'arco.

E' un errore insieme conformistico, razionalistico e tecnocratico, questa tendenza a considerare realismo la programmazione dei passaggi successivi della rivoluzione. Il problema vero è di creare le premesse perché il meccanismo si metta in moto. Per questo, sono convinto che serve tutto: anche i fondi per un programma per le regioni purché non no usati come i fondi della Cassa per il Mezzogiorno, cioè per accrescere la dipendenza dal centralismo.

E' importante anche che sia la Comunità, magari con argomentazioni tecniche, a fare delle Regioni i suoi interlocutori.

In sostanza, se non riportiamo nella politica europea la dimensione incarnata di un minimo di ideali, non saremo più in grado di trovare neanche la dimensione degli interessi.

La prima sfida è quindi quella di inventare la cultura politica dell'europeismo, che poi è la stessa del regionalismo moderno.

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